Metodologie come il Test Driven Development, o TDD, hanno guadagnato negli anni, e stanno guadagnando tutt’oggi, grande popolarità per una ragione molto semplice: funzionano. Funzionano nel migliorare la qualità del software, nel ridurre i costi di manutenzione e nel rendere più fluido il lavoro dei team tecnici.

Ma cosa significa esattamente sviluppo guidato dai test? E perché vale la pena adottarlo anche in contesti aziendali dove ogni decisione dev’essere ben ponderata?

Secondo la sua definizione, il TDD è un modello di sviluppo del software che prevede la scrittura dei test prima ancora del codice da testare.

A prima vista può sembrare un capovolgimento delle priorità. In realtà, si tratta di un processo molto razionale: prima si definisce chiaramente cosa il codice dovrebbe fare, poi si scrive il minimo indispensabile per farlo funzionare, infine si rifattorizza mantenendo il comportamento verificato dal test.

Il cuore del TDD è il suo ciclo, conosciuto anche come Red Green Refactor (RGR).

Si inizia scrivendo un test che, ovviamente, fallisce perché il codice ancora non esiste (fase rossa). Poi si scrive la logica necessaria per far passare il test (fase verde). Infine si migliora la struttura del codice, senza alterarne il comportamento (refactoring).

Questo ciclo si ripete continuamente, a piccoli passi.

Il risultato è un codice modulare, ben testato, più semplice da manutenere e meno incline alle regressioni.

Prendiamo un esempio pratico: supponiamo di voler scrivere una funzione che calcoli il prezzo scontato di un prodotto. In un approccio tradizionale potremmo iniziare scrivendo la funzione, testarla manualmente e poi aggiungere dei test automatici. Con il TDD invece, partiremo subito da un test: ad esempio, ‘dato un prezzo di 100 euro e uno sconto del 10%, il prezzo finale dev’essere 90’. E solo dopo aver scritto questo test, si passa a scrivere il codice necessario per farlo passare. Non di più, non di meno. E solo dopo si ottimizza o si estende il codice.

Questa pratica porta con sé una serie di benefici molto concreti.

In primo luogo, aiuta a mantenere il focus sul problema da risolvere, costringendo il team a suddividere il lavoro in piccoli task. Questo approccio riduce drasticamente la possibilità di perdersi nella complessità.

Inoltre, una volta completato un modulo, si dispone già di una batteria di test che fungerà da rete di sicurezza per le evoluzioni future del progetto. Non è poco: significa che eventuali modifiche o refactoring futuri saranno meno rischiosi e più veloci da validare.

Va detto però che il TDD non è una bacchetta magica.

Non sostituisce gli altri livelli di test come quelli di integrazione o di accettazione.

Non elimina del tutto i bug.

Non è immediato da adottare, soprattutto per team non abituati a ragionare in termini di test prima del codice. Inoltre, non tutte le componenti di un software sono facilmente testabili in questo modo. Lavorare con database o interfacce utente, ad esempio, richiede ulteriori strumenti o tecniche, e spesso l’effort per testare può superare i vantaggi se non si adottano soluzioni ad hoc.

In questi casi, un’estensione naturale del TDD è il Behavior Driven Development, o BDD.

Il BDD conserva la filosofia test-first ma si concentra sul comportamento dell’applicazione, spesso descritto in termini comprensibili anche da persone non tecniche. Questo permette di scrivere specifiche condivise tra sviluppatori, stakeholder e QA, trasformando i test in veri e propri esempi di utilizzo.

Naturalmente, per adottare il TDD in modo efficace servono alcune condizioni di base.

Serve un team che condivida la cultura del testing e conosca bene gli strumenti del proprio stack.

Serve un’architettura pensata per la testabilità, con componenti facilmente isolabili e sostituibili. E serve un’infrastruttura che supporti l’integrazione continua e l’esecuzione automatica dei test. Nel mondo Java, strumenti come JUnit e framework come Spring, con il suo sistema di dependency injection, facilitano notevolmente l’adozione del TDD. Anche in TypeScript, librerie come Jest o Vitest, insieme a strumenti di mocking come ts-mockito o sinon-js, rendono agevole scrivere test automatizzati fin dalle prime fasi dello sviluppo.

A prima vista, tutto questo può sembrare un investimento oneroso, specie per chi è abituato a ‘scrivere prima e testare poi’. Ma nel tempo, l’adozione del TDD si ripaga ampiamente: meno regressioni, meno sorprese nei rilasci, meno tempo sprecato in debugging. E, forse più importante di tutto, una maggiore fiducia nel proprio codice.

Il Test Driven Development non è solo una tecnica per scrivere software. È un modo diverso di affrontare lo sviluppo, più vicino a una forma mentis che a un semplice pattern.

Richiede disciplina e abitudine, ma quando entra nel flusso di lavoro diventa un alleato prezioso. E se il progetto è troppo complesso per essere completamente coperto dal TDD, il BDD può offrire una strada alternativa.

In ogni caso, l’importante è che il test non sia un pensiero postumo, ma parte integrante del progetto sin dalle sue fondamenta.

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